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Putin vince, la Russia continua a perdere

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"I cattivi vincono, i buoni perdono e come sempre Putin domina".

Potrebbe venire la tentazione (sempre frettolosa) di descrivere così le ultime elezioni per il rinnovo della Duma, il parlamento russo, parafrasando un famoso slogan del film "V per Vendetta", secondo una visione classica dei media occidentali: Putin, autocrate inamovibile sempre vincente, i "buoni" democratici filo-occidentali sconfitti alle urne mediante brogli, "l'impero russo" putiniano ancora saldamente sulla cresta dell'onda.

Ma un'analisi più attenta mostra in controluce come la riconferma del blocco putiniano lasci intravedere motivi di profonda debolezza interni allo stato russo.

Nonostante le accuse di brogli e l'arresto di numerosi dissidenti, il voto russo ha riconfermato Russia Unita al potere ma al prezzo di un evidente calo di popolarità.

In primis Russia Unita, il partito di cui Putin ufficialmente non fa parte ma di cui è de facto il leader (basti pensare che il suo numero due Dmitrij Medvedev, considerato da molti come il delfino dello Zar, sia il segretario del partito), non è riuscita neanche a raggiungere la maggioranza assoluta dei voti fermandosi poco sotto il 50%, in quello che probabilmente (dico probabilmente perché i dati elettorali in Russia vanno sempre presi con le pinze e rivisti al ribasso per quanto riguarda il partito al potere) è il peggior risultato dal 2003. Secondo i sondaggi alla vigilia del voto RU avrebbe ottenuto poco più della metà dei voti poi dichiarati. Alla base di questa impopolarità sta soprattutto la riforma pensionistica varata all'insegna dell'austerità due anni fa, all'indomani del referendum sul rafforzamento dei poteri a Putin, durante il quale lo stesso Presidente aveva promesso di non tagliare le pensioni.

Quello stesso referendum può essere letto come un ulteriore segno di debolezza: annullando i limiti di mandato fino al 2036 poco dopo aver rimosso Medvedev dal posto di Primo Ministro per sostituirlo con il grigio tecnocrate Mikhail Mishustin, Putin ha dimostrato sì che non esistono alternative valide a sé stesso come guida del paese ma l'altro lato della medaglia è che in questo modo ha privato la Russia di prospettive esulanti dalla sua persona. Quando Putin, ormai sulla soglia della settantina, sarà costretto a lasciare il potere se non altro per limiti anagrafici non ci sarà nessun successore in grado di riempire adeguatamente il vuoto, né nessun processo politico predefinito per selezionarne uno nuovo. L'obiezione più comune è che Putin è un leader autoritario e che i dittatori fanno così ma è piuttosto vero il contrario: da Saddam Hussein a Duterte, da Bolsonaro ad Ali Khamenei, tutti i leader autoritari hanno collaboratori stretti e ben conosciuti pronti a subentrargli ed eredi politici disegnati, a volte anche propri familiari, ma comunque ben noti. Non solo, va ricordato anche che Putin non è andato al potere con un colpo di stato, bensì è stato scelto per succedere al corrotto e moribondo Elstin da parte della sua corte di ricchi oligarchi e generali nostalgici dei vecchi revival nazionalisti. Il fatto che questi circoli, che de facto detengono ancora oggi la maggior parte del potere in Russia assieme a Putin, non riescano non ad attuare ma proprio a immaginare un governo russo senza Putin, tanto da dover allungargli il mandato di volta in volta, segnala una pericolosa debolezza del sistema russo.

Vladimir Putin, 69 anni la settimana prossima e al potere in Russia da ventidue anni, non sembra avere successori all'altezza né sembra interessato a investirne uno.

Si tratta in realtà di una debolezza pregressa, a cui Putin ha cercato di porre una pezza con un'intensa propaganda incentrata su grandi dispiegamenti (in realtà piuttosto farlocchi) di forza militare e su sé stesso come figura cardine di riferimento, generando proprio quella dipendenza dal suo essere leader che ora mina sottilmente la continuità del regime di Mosca.

La verità è che la Russia è in declino costante d'influenza fin dal crollo del Muro di Berlino. Per rendersene conto basta guardare l'elenco dei suoi interventi militari all'estero: nel 1989 l'esercito ai comandi del Cremlino dominava da Kabul a Berlino, imponendo manu militari la propria autorità su una mezza dozzina di paesi stranieri comprendenti due aree geopolitiche strategiche come Asia Centrale ed Europa Orientale, oltre a basi distaccate in giro per il mondo, da Cuba all'Indocina. Dopo il crollo dell'URSS Mosca si ritrovò a dover combattere contro la disgregazione del proprio territorio nazionale, lotta culminata con due sanguinosissime guerre in Cecenia, la seconda delle quali voluta e portata a compimento proprio da Putin. Dopo essere sopravvissuta alla crisi di sistema degli Anni Novanta (sopravvivenza che i russi hanno scambiato per ritorno al ruolo di grande potenza), il Cremlino ha dovuto combattere sempre più vicino a casa: prima nelle regioni di confine con la Georgia nel 2008, poi in Ucraina orientale nel 2014. In entrambi i casi gli scontri non sono scaturiti da una mossa russa per allargare la propria influenza ma da una reazione in stile "salviamo il salvabile" per limitare i danni geopolitici causati dal passaggio dei paesi in questione (Georgia e Ucraina) tra le file del blocco pro-occidentale. L'intervento in Siria contro l'ISIS è stato molto spettacolare ma limitato soprattutto ad attacchi aerei, alla pari degli altri membri della coalizione internazionale contro lo Stato Islamico. Visti in prospettiva gli eventi degli ultimi vent'anni segnalano un evidente ritiro della potenza russa, un non detto delle relazioni internazionali volto a cercare di mantenere l'equilibrio tra superpotenze: finché la Russia continua a fingere di essere una grande potenza alla pari con USA e Cina e queste continuano a fingere di riconoscerglielo nessuno al Cremlino si sentirà in dovere di fare qualcosa di avventato per dimostrare il contrario. Così si è giocato su equivoci e distinguo, come l'inclusione di Mosca nelle BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica), le "potenze emergenti" in via di sviluppo come definite a inizio millennio, non allo stesso livello di Washington e Pechino ma comunque rispettabile, non fosse per il fatto che la Russia non è né una potenza "emergente" (di fatto è considerata una grande potenza almeno dai tempi di Napoleone) né tantomeno "in via di sviluppo", almeno stando ai suoi stessi indici economici in costante declino. É evidente che se la Russia è stata inclusa in questa categoria intermedia tra le grandi potenze e le non-potenze non è perché sia in ascesa (da non-potenza a grande potenza) ma bensì perché sia in inarrestabile discesa (da grande potenza a non-potenza).

La situazione geopolitica della Russia all'arrivo di Putin: in blu scuro i paesi membri di NATO e UE, in blu solo NATO, in azzurro solo UE, in celeste i paesi filo-occidentali; i viola i paesi filo-russi, in violetto i paesi simpatizzanti con Mosca.

L'attuale situazione geopolitica della Russia, stessi colori: la disgregazione dell'influenza russa è evidente.

Chiunque legga i giornali con attenzione si accorgerebbe che l'ultimo anno è stato l'ennesimo periodo di erosione del potere russo: i filo-occidentali hanno rovesciato il regime filo-russo al potere da decenni in Armenia e, nonostante la sconfitta subita nel recente conflitto con l'Azerbaijan (conflitto che non sarebbe mai scoppiato se Mosca non avesse dato il suo tacito assenso per punire Yerevan per il suo "tradimento"), sono stati ri-confermati trionfalmente alle elezioni; i liberali europeisti hanno stravinto conquistando sia la maggioranza in parlamento sia la presidenza della Moldavia, uno dei pochi paesi ancora governati da ex comunisti post-sovietici tenacemente filo-russi; il regime di Aleksandr Lukashenko in Bielorussia è per ora sopravvissuto alle proteste popolari contro il suo dominio autoritario ma la sua debolezza ha mostrato tutto l'affatto del sistema di potere degli autocrati filo-Mosca. A questo si aggiunge una generale decadenza delle tradizionali formazione filo-russe in Europa, dalla Repubblica Ceca alla Bulgaria, dalla Gran Bretagna alla stessa Italia, con la svolta europeista intrapresa della Lega. Insomma, lo spazio della Russia sullo scacchiere mondiale si restringe di anno in anno e i mediocri risultati raccolti alle elezioni (quale superpotenza può dichiararsi tale quando non riesce neanche a pagare le pensioni dei propri cittadini?) sono solo l'ultimo segno di un potere a cui non resta altra prospettiva che gestire, se ne sarà capace, la propria liquidazione.

L'affermazione dei comunisti russi e la loro longevità hanno sorpreso molti analisti.

L'unica nota di colore delle elezioni è stata l'affermazione del Partito Comunista russo, che ha vinto circa il 19% dei voti (anche se i sondaggi gli davano almeno cinque punti in più). A trent'anni dallo scioglimento dell'Unione Sovietica è evidente come i comunisti non possano più essere semplicemente banalizzati come un residuo di vecchi nostalgici della falce e martello ma evidenziano un sincero sostegno popolare, almeno nel loro zoccolo duro, contraddistinto anche da un notevole sostegno nelle fasce più giovani. I comunisti non sono particolarmente popolari: il loro è un partito che di fatto ha accettato di venire a patti con Putin in cambio della propria sopravvivenza, guidato da leader vecchi e corrotti e dedito il più delle volte al clientelismo, caratteristiche condivise con gli altri partiti russi. Tuttavia, essi rappresentano l'unica visione del paese alternativa a quella putiniana e, come i Talebani hanno recentemente dimostrato conquistando l'Afghanistan quasi senza colpo ferire, a volte non serve che questa visione sia popolare quando non vi sono alternative che non comprendano la continuazione senza fine del malaffare, della corruzione e dei conflitti sanguinosi. Putin ha incentrato il proprio potere e la propria visione su sé stesso e questa morirà con lui, sarà la storia a dirci se questo segnerà la rinascita della Russia sul palcoscenico globale, magari in una nuova forma, o se sarà invece il suo definitivo funerale.


Sanga da Baskerville


Nota: per il presente articolo si è fatto uso di varie fonti tra mezzi di informazione nazionali e internazionali, tra cui The Guardian, Reuters, Internazionale, Huffington Post.

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