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Come la crisi ucraina sta ridisegnando le geometrie del Medio Oriente

logosgiornale

Aggiornamento: 11 mag 2022


La crisi ucraina si sta rivelando una grande opportunità per modificare gli attuali equilibri mediorientali

Mentre la possibilità che il conflitto attualmente in corso in Ucraina si allarghi trasformandosi in una guerra mondiale appare (si spera) non all'ordine del giorno, di regionale ormai la crisi ucraina ha ben poco viste e considerate le ricadute che la guerra sta avendo sul resto del pianeta.

Non bisogna stupirsene: già nelle prime ore d'invasione le autorità russe, a cominciare dal Presidente Vladimir Putin, hanno usato argomentazioni "globali" (come il supposto allargamento aggressivo della NATO contro la Russia in Europa orientale e il suo supporto per il "regime change") per giustificare la propria "operazione militare speciale", invece di limitarsi a pretesti "regionali" (come le note tensioni di lunga data sull'area etnicamente mista del Donbass), chiarendo così come questo non fosse una schermaglia geograficamente localizzata ma bensì solo un capitolo di uno sforzo molto più ampio che vede la Federazione Russa contrapporsi agli Stati Uniti per per ragioni legate alla definizione delle proprie sfere di influenza e, di conseguenza, della propria posizione nel sistema internazionale. Sanzioni, embarghi, blocco di importanti catene di approvvigionamento e ricatti economici, oltre a un considerevole ricorso alla cyberwarfare, da entrambe le parti hanno presto espanso il teatro dei combattimenti al di là dei confini ucraini.

Numerose aree del mondo stanno già accusando il colpo. Tra esse il Medio Oriente, a lungo centrale dell'immaginario e nella politica estera occidentale prima di essere scalzato dalla Cina prima e dalla Ucraina/Russia poi.

La dipendenza di molti paesi del Terzo Mondo dalle importazioni di grano russe e ucraine espone questi paesi a gravi ripercussioni legate alla chiusura di queste fonti di approvvigionamento

Sotto il peso delle ricadute legate al conflitto in corso in Europa orientale, questa tormentata regione sta infatti vedendo una generale riconfigurazione dei propri equilibri.

Il primo paese a esserne direttamente interessato è stato l'Egitto: il paese nordafricano, a causa della sua conformazione desertica, è tra i maggiori importatori mondiali di prodotti agricoli, soprattutto grano, l'80% del quale proveniente da Ucraina e Russia. L'impennata del prezzo del pane mette a rischio il fabbisogno alimentare di una nazione di oltre 102 milioni di cittadini, di cui 83 dipendenti da programmi di assistenza alimentare basati su prezzi calmierati dal governo. Il tema del prezzo del pane è un tema molto sensibile in Egitto, dove i vertici politici ricordano bene come proprio il forte incremento del costo di questo bene nel biennio 2008-2010 (seguito a un'altra crisi con la Russia, quella legata all'invasione della Georgia nel 2008) abbia aperto la strada alla Rivoluzione di Piazza Tahrir del 2011. Nonostante il rialzo del prezzo del gas vada in linea di massima a vantaggio dell'Egitto, che dispone di diversi giacimenti non ancora sfruttati e di ampi impianti per sostenerne l'esportazione, il Cairo ha dovuto subire il duro colpo inflitto al settore turistico (nel 2018 quasi un sesto dell'intera economia egiziana) dal blocco dei collegamenti con Ucraina e Russia, da cui provenivano quasi un terzo dei turisti che ogni anno visitano il più antico paese del mondo. A confermare la drammaticità della congiuntura economica è stato lo stesso Presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, al potere dal golpe militare che lo ha portato alla presidenza nel 2014, che poche settimane fa ha dovuto annunciare che l'Egitto non era più in grado di pagare il programma che permetteva a quattro quinti della popolazione egiziana di comprare il pane.

La crisi alimentare innescata dal conflitto russo-ucraino rischia di travolgere i paesi mediorientali, in primis l'Egitto ma anche Tunisia, Libano, Algeria, Iraq e Yemen

Impegnato in un difficile gioco di equilibrio diplomatico tra la Russia (prima esportatrice di grano in Egitto ma, più recentemente, anche un partner commerciale sempre più rilevante) e gli Stati Uniti (che non solo è il primo partner militare del Cairo ma ha anche grande influenza sul Fondo Monetario Internazionale, presso il quale l'Egitto è fortemente indebitato), il paese delle Piramidi ha potuto però contare sul decisivo aiuto dei ricchi e ambiziosi paesi del Golfo, guidati dall'Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. In totale questi paesi hanno elargito finora ben 22 miliardi di dollari all'Egitto, permettendogli così di acquistare le necessarie derrate alimentari sui mercati internazionali e sfamare la propria popolazione. Ma non si tratta certo di un investimento caritatevole: per esempio, l'Abu Dhabi Development Holding, un fondo di proprietà del governo emiratino, ha condizionato i suoi 2 miliardi di aiuti all'acquisto di una parte delle compagnie statali egiziane. Le ricche dinastie del Golfo hanno tutto l'interesse a evitare una nuova stagione di rivoluzioni e proteste simili a quelle della Primavera Araba che possa impensierire i loro dispotici regimi e al tempo stesso ad aumentare la propria penetrazione (economica) e influenza (politica) sul governo egiziano.

Questa rinnovata posizione di forza vale soprattutto per la maggiore tra le potenze del Golfo, cioè l'Arabia Saudita, grazie alla grande ricchezza economica accumulata in decenni di predominio nel mercato petrolifero mondiale, alla popolazione relativamente ridotta e benestante e al controllo di vaste riserve energetiche che, ora che il petrolio e il gas russo stanno diventando inavvicinabili per i paesi occidentali, le permettono di tenere letteralmente il coltello della parte del manico.

A lungo considerata un alleato stretto degli Stati Uniti, l'Arabia Saudita ha invece manifestato un sconcertante autonomia dall'inizio della crisi: non ha votato alcuna sanzione contro la Russia e ha permesso alla Cina di acquistare il petrolio saudita usando la propria valuta al posto del Dollaro, minando così la tradizionale egemonia della moneta statunitense sul mercato petrolifero (la valuta di Washington infatti è usata come moneta di riferimento dall'OPEC, l'organizzazione dei paesi produttori di petrolio, rendendola il mezzo primario di pagamento dei beni energetici). Non solo, ma il leader saudita Mohamed bin Salman ha ripetutamente rifiutato una telefonata diretta col Presidente USA Joe Biden, che voleva chiedergli di aumentare la produzione di petrolio per poter compensare la perdita del greggio russo, negli stessi giorni in cui donava l'impressionante somma di 2 miliardi di dollari a Jared Kushner, marito di Ivanka Trump e genero dell'ex Presidente Donald Trump. Lo sgarbo personale e diplomatico si somma così a un evidente sgarbo politico e lascia pensare che Riyadh punti su un miglioramento dei rapporti con gli USA solo dopo la sostituzione dell'amministrazione Biden (anche considerando le forti speculazioni su una ricandidatura di Trump alla Casa Bianca nel 2024), segnando un ulteriore passo nel deterioramento dei rapporti saudito-americani iniziato dopo la decisione di Biden, presa a inizio mandato, di pubblicare le intercettazioni della CIA che provavano il coinvolgimento di bin Salman nella macabra uccisione del giornalista dissidente Jamal Khashoggi, avvenuta all'interno del consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018, allora negato da Trump stesso.

Sotto la guida dell'ambizioso principe Mohamed bin Salman, l'Arabia Saudita sta sfruttando la crisi ucraina per estendere la sua influenza in Medio Oriente anche a scapito del tradizionale legame con gli Stati Uniti

Un altro paese che sta interpretando il suo ruolo nella crisi ucraina all'insegna di una sempre maggiore autonomia è la Turchia. Dopo la svolta autoritaria intrapresa dal suo Presidente Recep Tayyip Erdogan, i rapporti tra Ankara, che pure è membra della NATO e paese candidato dell'Unione Europea, e l'Occidente erano drammaticamente peggiorati fino a culminare nell'acquisto di importanti sistemi d'arma missilistici dalla Russia e da una rinnovata intesa con Mosca sulle questioni mediorientali (la crisi siriana in primis ma anche gli affari del Caucaso). Dopo l'arrivo alla Casa Bianca di Biden, gli Stati Uniti avevano provato a ricucire i rapporti con Erdogan con una serie di gesti distensivi (tra cui la decisione di mettere il veto al gasdotto EastMed, contestato da Ankara) e chiudendo un occhio sulle numerose azioni in solitaria della Turchia, come il forte sostegno fornito all'Azerbaijan nella sua guerra contro l'Armenia lo scorso anno per il possesso del conteso Nagorno-Karabakh. Tale atteggiamento di benevolenza si è solo accresciuto con lo scoppio della guerra in Ucraina, durante la quale la Turchia ha potuto sfruttare i suoi buoni rapporti con Mosca e pure con Kiev per giocare i panni della mediatrice e dell'ago della bilancia (da un lato non aderendo alle sanzioni occidentali contro la Russia, dall'altro vendendo armi all'Ucraina), fino a riuscire a ospitare l'incontro tra i ministri degli esteri delle due nazioni. Ma la politica estera da "libero giocatore" di Erdogan non si è limitata all'Ucraina ma si è estesa anche al resto del Medio Oriente. In particolare la Turchia, attanagliata da tempo da cronici problemi economici, ha recentemente stretto una serie di accordi strategici con l'Arabia Saudita, un riavvicinamento simbolicamente rappresentato dalla decisione turca di cedere la competenza delle indagini sul già citato omicidio Khashoggi alle autorità saudite, nonostante gli ovvi dubbi sulla loro imparzialità e nonostante all'epoca fosse stato lo stesso Erdogan a usare la vicenda per attaccare l'Arabia Saudita.

Il nuovo asse tra Turchia e sauditi va sommarsi alla storica alleanza tra Riyadh e Pakistan, ai solidi legami con la giunta militare sudanese e col nuovo governo talebano in Afghanistan, all'interferenze nella politica libanese (un altro paese ridotto alla fame e alla vigilia delle elezioni politiche) e all'intesa raggiunta tre anni fa con Israele (i cosiddetti Accordi di Abramo), oltre alla già menzionata influenza raggiunta sull'Egitto e all'alleanza con gli altri paesi dal Golfo. Il quadro che se ne trae è quello di una ritrovata centralità dell'Arabia Saudita in Medio Oriente, alla guida di una rete di accordi e alleanze tessuta sotto lo sguardo tra il benevolo e il distratto dell'Occidente e da cui il grande escluso rimane evidentemente l'Iran, nemico storico dell'Arabia Saudita, con il quale le discussioni languono dopo il tradimento dell'Accordo sul Nucleare, firmato nel 2015 e abbandonato unilateralmente dagli Stati Uniti nel 2018 sotto il suo successore Trump. Non è un caso se Teheran si sia ritirata nella sua tradizionale alleanza con la Russia e la Cina e con i suoi partner regionali sciiti in Iraq, Siria, Yemen e Libano. Questa coalizione a guida saudita in funzione strumentalmente anti-iraniana potrebbe trovare una rinnovata spinta in caso di ritorno dei repubblicani, specificatamente di Donald Trump, al potere negli Stati Uniti.

Incastrata tra la riluttanza a riaprire i negoziati con l'Iran e l'indebolimento della propria posizione nell'area, Washington non sembra in grado di frenare il declina dell'influenza americana a vantaggio delle potenze locali mediorientali

Sanga da Baskerville

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